Le sfide della politica economica
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Scenari economici Confindustria n° 30 - Settembre 2017.
In sintesi
Alla ripresa autunnale l’andamento dell’economia rimane molto favorevole.
La crescita globale si consolida: nel secondo trimestre di quest’anno ha toccato il ritmo più alto dal 2010. La coralità coinvolge un sempre più ampio numero di paesi e la velocità è più uniforme. Nell’insieme delle economie avanzate la disoccupazione è ai minimi dalla primavera del 2008.
I dati riservano sorprese positive e inducono a rivedere al rialzo le previsioni, mentre fino allo scorso anno costringevano ad abbassarle.
Nel nuovo scenario economico elaborato dal CSC la crescita mondiale si mantiene ai ritmi attuali anche nel 2018, nel complesso e in tutti i maggiori paesi. Gli scambi commerciali continuano a beneficiare del ciclo globale degli investimenti e salgono del 4,1% quest’anno e del 3,5% il prossimo (+3,9% e +3,3% stimati in giugno).
Le stime per il PIL italiano vengono ulteriormente ritoccate all’insù: +1,5% nel 2017 e +1,3% nel 2018, rispetto al +1,3% e al +1,1% indicati tre mesi fa. Il rialzo si spiega, da un lato, con l’andamento marginalmente migliore dell’atteso nel secondo trimestre (+0,4% contro +0,3%); è un risultato qualitativamente importante perché scioglie le riserve di alcuni analisti sulla genuinità dei dati precedenti. E, dall’altro, è coerente con il tono elevato degli indicatori qualitativi (specie quelli sugli ordini).
A fine 2018 il PIL recupererà il terreno perduto con la seconda recessione (2011-13). Sarà ancora del 4,7% inferiore al massimo toccato nel 2008.
Queste previsioni potrebbero rivelarsi prudenti. Le informazioni disponibili sul trimestre estivo sono limitate per il cruciale settore dei servizi (quelli turistici hanno un’alta valenza stagionale). Una dinamica più robusta del preventivato innalzerebbe soprattutto la media del 2018, perché si trasferirebbe pienamente sul trascinamento all’anno prossimo.
D’altra parte, le stime del CSC non includono gli effetti della prossima Legge di bilancio (che è attesa migliorare i saldi dello 0,5% del PIL), perché non se ne conoscono reale ammontare e composizione. L’esito del 2018 dipenderà anche dagli incentivi agli investimenti, dalla loro durata effettiva e dalle risorse ulteriori che verranno messe in campo.
L’Italia è agganciata alla ripresa mondiale e le esportazioni sono la componente più dinamica della domanda. Anche perché il made in Italy continua a guadagnare quote di mercato, come ora viene riconosciuto anche da altre istituzioni nazionali e internazionali. Nel 2018 l’export sarà del 15% sopra i livelli del 2008 e al 32,5% del PIL. Merito delle strategie delle imprese che puntano all’upgrading qualitativo dei beni, all’innovazione, al marketing e ai mercati più dinamici. Strategie che sono supportate dalle politiche di internazionalizzazione governative e associative.
Gli investimenti mostrano un vivace dinamismo. Il ciclo di acquisti di beni strumentali è partito nel 2014 e si è poi esteso e intensificato grazie a un insieme di fattori: le migliori aspettative di domanda, il basso costo del capitale, la saturazione degli impianti, il recupero dei margini (grazie alla diminuzione dei costi degli input importati), la necessità di introdurre innovazioni di processo e di prodotto, la maggiore competitività originata dalla svalutazione dell’euro, la spinta degli incentivi fiscali e, più recentemente, la risalita delle costruzioni. Nel periodo di previsione gli acquisti di beni strumentali diversi dalle costruzioni raggiungeranno il 9,5% del PIL, pari alla media degli anni 1999-2007 (9,9% è il top pre-crisi).
Gli investimenti rafforzano la congiuntura ma soprattutto ampliano e aggiornano tecnologicamente la capacità produttiva, innalzando così il potenziale di crescita. Ciò è vero specialmente quando sono indirizzati da un piano di politica industriale, come quello varato un anno fa e focalizzato su Industria 4.0, ossia su quell’insieme di tecnologie abilitanti legate alle innovazioni digitali e trasversali a tutti i settori, piano che per avere pieno successo non può essere una scelta occasionale ma una decisione strategica.
Il recupero dell’economia italiana è caratterizzato da una considerevole creazione di posti di lavoro. Dal 2014, quando è cominciato, al secondo trimestre del 2017 l’incremento cumulato del PIL è stato del 3,0%, quello dell’occupazione del 3,7% e quello delle ore lavorate del 4,3%. I progressi sono stati notevoli anche in termini di persone occupate: +815mila; a fine 2018 supereranno di 160mila unità il picco
toccato nel 2008. Le retribuzioni reali saranno nel 2018 dello 0,9% sotto i livelli del 2007 (ma nell’industria in senso stretto del 9,0% sopra), mentre il PIL per abitante, che misura il benessere di tutti, sarà ancora del 7,2% inferiore.
Tutto ciò mette in evidenza che il mercato del lavoro non è la Cenerentola del recupero in atto. Ma per avere un quadro completo occorre aggiungere due informazioni.
Le persone a cui manca lavoro, in tutto o in parte, sono ancora 7,7 milioni. Ciò rende meno diffusa la percezione dei miglioramenti realizzati e deve indurre a continuare a porre il mercato del lavoro al centro delle politiche.
La bassa occupazione giovanile è il vero tallone d’Achille del sistema economico e sociale italiano. Nel rapporto con la popolazione di riferimento ha una distanza di 10-17 punti percentuali (a seconda della fascia d’età) dalla media dell’Area euro. Ciò sta inducendo flussi crescenti di emigrazione che producono una perdita di capitale umano stimata dal CSC in un punto di PIL all’anno, abbassando così il potenziale di sviluppo. Rappresenta una vera e propria emergenza.
L’aumentata performance dell’economia italiana sprona a ottenere risultati migliori così da riguadagnare più rapidamente il terreno perduto in termini di produzione, reddito e posti di lavoro e chiudere il divario con gli altri paesi europei, nella dinamica e nel livello.
Ricordiamo, infatti, che il gap di crescita con il resto dell’Area euro è sì molto diminuito rispetto a due anni fa (da 1,5% a 0,8%) ma permane negativo e amplia la distanza nei valori assoluti, come già accadeva prima della crisi. Rispetto al 2000, il PIL dell’Area euro (al netto dell’Italia) è salito del 24,4%, quello dell’Italia dello 0,8%. Simili differenze di risultato emergono anche dai confronti rispetto al 2007
e al 2013, ultimo anno della recessione.
D’altra parte, la crisi ha compiuto quest’estate dieci anni e che non ci sia completa guarigione lo si legge, tra l’altro, nelle politiche monetarie ancora da terapia intensiva. Ma le radici della lenta crescita italiana sono più antiche, profonde e diffuse. Il recupero in atto, più che alla recisione di alcune di queste radici, si deve al ciclico aggancio, a distanza, all’andamento europeo (mentre, per esempio, la Spagna si stacca in avanti al gruppo). Ciò non aiuta a migliorare la fiducia degli investitori nel Paese.
Il settore trainante del recupero in corso è il manifatturiero, grazie sia alla composizione della crescita della domanda (beni esportabili e mezzi di produzione) sia al suo ruolo baricentrico nello sviluppo economico.
Il credito non costituisce più, come è avvenuto fino allo scorso anno, un freno alla crescita, ma neppure le fornisce una marcia aggiuntiva. Anche se i prestiti alle imprese aumentano un po’ in alcuni settori.
Non mancano i rischi, che diventano altrettante sfide per la politica economica.
Il primo rischio è racchiuso nell’uscita dalle misure di emergenza della politica monetaria. Hanno avuto grande successo nel contrastare la deflazione e contribuito in modo fondamentale a sostenere la domanda e l’occupazione. Nell’Area euro hanno costituito il principale baluardo, in alcuni momenti l’unico, contro il suo stesso dissolvimento.
Consapevoli degli ottimi risultati raggiunti, i banchieri centrali sono ora in procinto di compiere la difficile manovra di ridimensionare i loro interventi senza causare turbolenze destabilizzanti nei mercati finanziari. Molte quotazioni azionarie, per esempio, sono ricche in ragione dell’ampia liquidità immessa e dei tassi di interesse mai stati così bassi nella storia.
Lo stesso vale per le obbligazioni, a cominciare dai titoli di stato. I cui acquisti netti da parte delle principali Banche centrali caleranno da 100 miliardi di dollari attuali verso zero per la fine del 2018.
La FED ha già messo in chiaro come procederà. La BCE lo annuncerà a breve. L’inflazione rimane ostinatamente bassa per l’operare di fattori sia ciclici (come l’abbondanza di persone poco o per nulla occupate) sia strutturali (come l’accesa competizione globale e l’accelerazione della rivoluzione tecnologica). Ma non pare tale da far mutare orientamento ai banchieri centrali.
La robustezza della ripresa in USA e nell’Area euro rende l’economia in grado di reggere la riduzione dei sostegni monetari. Appaiono, invece, inevitabili tensioni e aggiustamenti dei prezzi di molte attività. La sfida è evitarne repentini ribassi che intacchino la fiducia di famiglie e imprese.
Il secondo rischio è che l’autocompiacimento per il buon andamento economico rilassi l’azione riformista dei governi. Ciò vale sia dentro i singoli paesi sia nel rilancio dell’Unione europea e, soprattutto, dell’Unione monetaria.
Nazionalismi e populismi, pur usciti ridimensionati dalle ultime consultazioni elettorali, non hanno esaurito la loro spinta. L’impoverimento e l’esclusione sociale, prodotti dai cambiamenti epocali in atto ed esacerbati dalla crisi, non vengono adeguatamente affrontati.
In Italia è maggiore la necessità di innalzare il potenziale di crescita dell’economia, ulteriormente diminuito dalla profonda e lunga recessione. Su tale tema sono chiamate a confrontarsi le forze politiche in vista delle elezioni nazionali, il cui esito appare particolarmente incerto e potrebbe ripercuotersi sull’evoluzione economica.
Il terzo rischio è nel ritorno a simultanee politiche di bilancio restrittive in Europa. Dopo la fase della grande stretta (2011-2014), dall’anno scorso sono diventate nel complesso leggermente espansive e questo cambio di orientamento ha aiutato il rilancio. Le manovre che saranno varate nelle prossime settimane per realizzare gli obiettivi di riduzione dei deficit torneranno, invece, ad agire da freno.
Il risanamento dei conti pubblici è ineludibile, specie nelle fasi congiunturali positive e soprattutto per i paesi ad alto debito pubblico come l’Italia (la stessa Francia non è ben messa). Alla luce anche dell’alta capacità produttiva ancora inutilizzata, va perseguito con un mix di interventi che aiutino la crescita, sostenendo gli investimenti pubblici e privati e promuovendo l’innovazione e l’inclusione sociale.
Per mantenere la fiducia degli investitori (in vista dei minori acquisti di titoli della BCE) è fondamentale che l’Italia incanali il debito pubblico, che nel 2018 inizia a ripiegare in rapporto al PIL, in modo permanente e convincente su un sentiero di rientro, benché più graduale dell’irrealistica e controproducente prescrizione del Patto di stabilità e crescita (un ventesimo all’anno della differenza tra livello effettivo e limite del 60% del PIL).
Negli USA c’è anche un rischio connesso alla politica di bilancio: che le misure espansive promesse dall’Amministrazione Trump non si concretizzino nelle dimensioni e nei tempi necessari ad avere i significativi effetti previsti nel 2018.
Altri rischi possono cambiare in modo deciso il quadro internazionale nel prossimo biennio: un ulteriore forte indebolimento del dollaro, una nuova caduta del prezzo del petrolio e un rallentamento marcato della Cina.
La discesa della valuta USA può essere innescata dalla perdita di fiducia nelle prospettive americane (in base alle misure che l’Amministrazione Trump sarà capace di mettere in campo) e dal consolidamento dei fondamentali europei. Se fosse particolarmente ampia e intensa, intralcerebbe molto la crescita dell’Area euro. Gli effetti sono molto diversi a seconda della causa e del tipo di movimento: se è un indebolimento del dollaro o un rafforzamento dell’euro. Nel primo caso la competitività persa è minore perché la moneta unica rimane ferma rispetto alle valute diverse dal dollaro, nel secondo caso si apprezza contro tutte. Il CSC stima che un indebolimento del dollaro del 5% (cambio bilaterale con euro a 1,24) riduce il PIL italiano dello 0,1% in due anni; un rafforzamento dell’euro della stessa entità lo abbassa dello 0,4%.
Storicamente la svalutazione del dollaro si è accompagnata a un rincaro del prezzo in dollari delle materie prime. Il petrolio oscilla da alcuni mesi senza direzione. L’offerta ora è attesa rimanere sopra la domanda anche nella seconda metà del 2017 e ancor più nel 2018. Ma non in misura tale da provocare un crollo del prezzo.
La Cina ha finora privilegiato gli obiettivi di crescita a quelli di sostenibilità finanziaria e il debito ha continuato a gonfiarsi. Difficilmente cambierà ordine di priorità.
Il report completo è disponibile al seguente link: report completo.
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