Booklet Economia: se si prolunga oltre i tre mesi, lo shock congiunto di conflitto e materie prime mette a rischio la produzione di 1 impresa su 4
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Edizione speciale conflitto Russia-Ucraina
Gli effetti della guerra in corso ai confini dell’Europa sono immediati sulle prospettive macroeconomiche del nostro Paese e colpiscono direttamente l’operatività delle imprese, già messa a dura prova nell’ultimo anno, come più volte commentato, dalle turbative nelle catene globali di approvvigionamento e dallo shock energetico. Cogliere con tempestività gli impatti diretti di questa nuova crisi a livello micro di imprese assume dunque massima importanza per provare a quantificarne l’ordine di grandezza.
Per compiere questo esercizio analizziamo le indicazioni fornite da 463 imprese associate ad Assolombarda di Milano, Monza Brianza, Lodi e Pavia attraverso il sondaggio rapido condotto da Confindustria tra il 15 e il 24 marzo scorsi. È un insieme numeroso di imprese, prevalentemente del manifatturiero (il 71% del totale; il resto è molto parcellizzato tra settori dei servizi) e, come prevedibile attendersi, c’è una sovra-rappresentazione delle aziende esportatrici (il 75% dei rispondenti), più esposte agli scenari internazionali e in particolare modo di quelle con rapporti diretti con Russia-Ucraina-Bielorussia (circa la metà delle esportatrici). Si tratta quindi di un panel di rispondenti che non può essere considerato un campione statisticamente rappresentativo, ma che per numerosità rappresenta sicuramente uno spaccato interessante da analizzare.
La difficoltà conseguente il conflitto più diffusamente sentita dalle imprese è l’ulteriore aumento dei costi dell’energia e delle altre commodity indicato come problema ‘importante’ da quasi 9 rispondenti su 10 (88,3%) e da 8 su 10 (82,5%) rispettivamente. Seguono su percentuali inferiori, ma comunque elevate, le problematiche nell’approvvigionamento delle materie prime (72,6% dei rispondenti) e il costo e il reperimento di semilavorati (circa 50%). Oltre un terzo delle imprese rileva poi ostacoli all’export e difficoltà nei pagamenti.
L’acciaio è in assoluto la materia prima rispetto alla quale sono maggiormente sentiti sia i problemi di costo (per il 47,5% delle imprese) sia quelli di approvvigionamento (35,4%). Escludendo i beni energetici, tra le altre materie prime più critiche emergono rame, nickel, zinco e minerale di ferro tra i metalli, urea e fosfato di ammonio tra i fertilizzanti, mais, olio di semi di soia, frumento e olio di palma tra gli agricoli, cotone. Lato materie prime e componenti il problema, dunque, è prioritariamente di costo, ma è anche consistente e preoccupante in termini di disponibilità.
L’aumento dei costi e le difficoltà di approvvigionamento hanno un impatto diretto sull’attività delle imprese e quasi 60 realtà a Milano, Lodi, Monza Brianza e Pavia segnalano di aver già ridotto la produzione, la maggiore parte della quali fino al 20%, ma con una quota non trascurabile fino al 40%. Inoltre, della quota consistente di imprese che per ora non ha ridotto la produzione, solo un terzo è in grado di mantenere l’attività invariata per tempi prolungati, mentre per i due terzi restanti la gestione delle difficoltà ha un limite temporale: il 27% presuppone di poter continuare a produrre senza interruzioni solo nel breve termine, ossia ancora per 1-3 mesi, e un ulteriore 32% non oltre i 12 mesi.
In ogni caso, di fronte a questa nuova crisi, così come nella ripartenza post pandemica, la reattività delle imprese dei nostri territori si sta dimostrando veloce. A fronte di uno stress particolarmente forte sulle catene globali di fornitura, la ricerca di mercati alternativi di approvvigionamento è diffusa non solo, come ovvio, alle imprese che importavano da Russia-Ucraina-Bielorussia (l’85,4% di esse lo sta appunto facendo) ma anche a quelle con forniture nel resto del mondo. Difatti, escludendo le realtà esposte verso Russia-Ucraina-Bielorussia, ben il 48,1% delle imprese sta ricercando mercati alternativi di approvvigionamento: questo significa che è in atto una importante e sfidante riorganizzazione delle geografie delle catene globali del valore, che non si configura esclusivamente come tattica di breve periodo in risposta al conflitto bensì come strategia che guarda al futuro. In questo senso, è interessante notare che tra i mercati alternativi, l’Europa gioca un ruolo rilevante, verosimilmente per le forniture tra imprese di semilavorati (più che di materie prime): dopo la Cina che rappresenta il primo mercato di sbocco alternativo indicato dal 23,1% delle imprese, segue a breve distanza l’Italia (18,9% dei rispondenti), poi la Germania (13,0%), gli Stati Uniti (10,9%) e la Turchia (10,1%).
In aggiunta, le imprese sono attive anche nella ricerca di nuovi mercati di destinazione, con una quota che sfiora il 40% per chi esportava verso Russia-Ucraina-Bielorussia e del 16% per chi vendeva in altre aree del mondo.
Si segnala poi che una percentuale elevata ha rivisto i propri prezzi di vendita (84% del totale rispondenti), di fronte all’aumento notevole dei costi degli input produttivi che si stanno sperimentando.
Coerentemente con i risultati dell’indagine, le indicazioni proveniente dalle survey di fine marzo sul clima di fiducia delle imprese e delle famiglie sono di un chiaro deterioramento della fiducia conseguente alla maggiore incertezza dopo lo scoppio della guerra. L’indice di fiducia in Lombardia e nel Nord Ovest da febbraio a marzo crolla da 116,5 a 103,3 per i consumatori e diminuisce da 111,9 a 110,2 per le imprese manifatturiere. La flessione della fiducia dell’industria appare per il momento meno consistente perché sostenuta da ordini correnti su livelli ancora elevati, ma preoccupa il sensibile peggioramento sui minimi da inizio 2021 delle aspettative a breve sia sulla domanda sia sulla produzione.
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